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E’ possibile ed ammissibile parlare di qualcosa che non si conosce direttamente?
Almeno in due modi, io credo.
Alla stessa stregua di ciò che avviene nei romanzi, ricorrendo alla propria esperienza e sensibilità, si può raccontare di fatti fantastici ed esprimere nuove emozioni, e sia gli uni che le altre saranno tanto più verosimili quanto maggiori le risorse da cui attingere. Oppure, come nel mio caso, affidandomi all’esperienza di un caro amico che, molto cortesemente, mi ha chiesto di trascrivere i fatti realmente compiuti e le emozioni scaturite dall’ascensione alla cima del Cervino, senza contributo di guida alpina.
Il mio compito si è limitato a funzioni di scrivano; ho raccontato i fatti in prima persona ma per conto suo ed ho trasportato in essi tutto il sentimento e l’umanità che mi ha trasmesso, provando la sensazione, mentre lo ascoltavo, e scrivevo, di aver vissuto, al pari suo, la stessa sua esperienza e le stesse sue emozioni.
Non sono mai salito, almeno fino ad oggi, in cima al Cervino. Eppure l’ho visto da vicino, da molto vicino, durante un attraversamento invernale con gli sci da Cervinia a Zermatt e mentre ascendevo il Breithorn, con gli stessi compagni che successivamente sono saliti sul Cervino. In entrambe le occasioni ho assaporato tutta la bellezza che emana da questa unica, straordinaria e slanciata piramide di roccia, un po’ ricurva su se stessa verso la vetta, come una geisha nell’atto di proporre un invitante inchino carico di grazia e gentilezza, ma che pretende rispetto.
CERVINO:
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Nei primi giorni di agosto, senza prevedere quale piacevole sorpresa ci stesse preparando il futuro, con l’animo in pace riguardo alla grande montagna, ma con la speranza inconsciamente viva, ci siamo portati sull’Appennino bolognese, precisamente al Corno alle Scale, per fare un po’ di allenamento (il cosiddetto fiato). Salendo dal rifugio Seghe Vecchie, si superano 1200 metri di dislivello che abbiamo coperto in meno di tre ore, un buon tempo se si considera la nostra età. Arrivati in cima, l’amico Beppe accenna al fatto che si sarebbe potuto nuovamente tentare la salita al Cervino. La sua fu una proposta delicata, consapevole del fatto che poteva suscitare reazioni negative, considerando le delusioni, le amarezze, la grande fatica che i tentativi precedenti avevano prodotto su di noi ed i disagi di notti passate insonni, al freddo, nel bivacco in parete, ma al tempo stesso esprimeva ancora grande desiderio di rivincita perché, anche se temuta, quella cima era ancora nei nostri cuori. E così, per tutto il tempo della discesa dal Corno alle Scale, non facemmo che tornare con il pensiero e con le parole al Cervino, ai tentativi falliti degli anni trascorsi, alle possibili cause di fallimento imputabili alle nostre responsabilità ed ai progetti per l’ultima prova, perché così decidemmo che sarebbe stato, l’ultima chance appunto che ci saremmo concessi per conquistare quella cima tanto sospirata e temuta. Non contava assolutamente nulla che fossero parecchie dozzine di persone a salire in cima ogni anno; ormai era importante che anche i nostri nomi potessero essere scritti sul grande libro della montagna. Pertanto, arrivati al parcheggio dove avevamo lasciato la nostra auto, l’accordo era raggiunto, il programma abbozzato e l’entusiasmo alle stelle. Decidemmo altresì di non far parola con nessuno del progetto e di ritrovarci alcuni giorni dopo a casa di Antonio per i preparativi finali, la scelta delle due cordate, i materiali necessari per affrontare la salita e l’eventualità di trascorrere più di una notte nel bivacco. 11 agosto Arrivati al parcheggio di Tasch, prendiamo il trenino a cremagliera che ci avrebbe portato a Zermatt. Questa cittadina, chiusa al traffico automobilistico, è veramente incantevole. E’ un piacere percorrerla a piedi, passeggiare tra le vie con case ricche di balconi fioriti, in mezzo a tanti turisti. Alla fine del paese, dove ci sono le funivie che portano in quota, la vista del Cervino rappresenta un vero spettacolo per chi apprezza la montagna in genere. Attraversando il ponte sul torrente impetuoso che scorre sotto, Beppe confessa la convinzione che quella sarebbe stata l’occasione buona per salire in cima, dopo i tentativi falliti, e manifesta il suo buonumore stringendo la mano a tutti noi e augurando buona fortuna. La funivia ci trasporta, in pochi minuti, fino ai 2563 metri di quota dell’hotel Schwarsee e quindi iniziamo la marcia di avvicinamento al rifugio Hornli, a quota 3250, che ci avrebbe ospitato per la prima notte. Arriviamo al rifugio abbastanza affaticati, sia per lo zaino pesante, sia per l’altitudine, mancando assolutamente l’acclimatamento a quote elevate. Una volta avuta l’assegnazione della camera e ripreparato lo zaino per il giorno dopo, lasciando quindi al rifugio tutto quello che non sarebbe stato necessario per l’arrampicata, in attesa della distribuzione della cena, ci avviciniamo al punto di attacco della grande parete per studiarne le modalità di approccio. In quel momento, il rumore di un elicottero cattura la nostra attenzione. Lo osserviamo avvicinarsi al rifugio e depositare una barella con un ragazzo ferito e ritornare ancora su, verso la capanna Solvay, dove aspettano altri alpinisti in difficoltà, compagni di sventura del giovane alpinista. Questo infonde la montagna: tanta allegrezza interiore quando la si contempla e concede di poter soddisfare le proprie aspirazioni e tanta perplessità e senso di vuoto quando si nega ai suoi frequentatori. Sono questi i momenti in cui, se non si è fermamente convinti di ciò che si vuol fare, si è portati ad abbandonare le speranze e gli intendimenti che ci hanno accompagnato nei progetti. A cena, più tardi, cercando di non prestare eccessiva attenzione a ciò che si metteva dentro (forse il cuoco, quella sera, aveva la luna storta) si tenta di sdrammatizzare l’accaduto di poco prima tentando di attribuire a se stessi una maggiore preparazione tecnica ed attenzione nell’affrontare le difficoltà legate all’ascensione ma soprattutto sperando in un particolare riguardo della sorte nei nostri confronti. E così tra un boccone ed un goccio di vino, tra entusiasmo contenuto e timore latente, tra aspirazioni manifeste e ripensamenti ricacciati indietro, tra il corpo che richiama il riposo notturno (ma non il sonno ristoratore che è quasi impossibile assicurarsi) e la mente che pregusta la gioia della vetta raggiunta, ci avviciniamo alle brande sospinti dalle luci artificiali del rifugio che cominciano a spegnersi. 12 agosto
Il mattino seguente non ci trova alzati di buon ora; non so come sia stato possibile restare in branda fino alle sette visto che la notte sembrava non finire mai. Alle otto ci passano la colazione e quindi iniziamo i preparativi per la seconda tappa della nostra impresa, la salita al bivacco, o capanna Solvay a quota 4.003 metri. Non so se fosse stata la notte a fare da cattiva consigliera oppure il tratto iniziale piuttosto impegnativo ad indurre Beppe a sbuffare; fatto sta che incomincia a lamentarsi di voler rinunciare, che non sarebbe stato in grado di affrontare le difficoltà che, in parte, sapeva esserci di sicuro. Appare evidente che la salita non cominciava con il piede giusto, tanto che Vasco ed io lo abbiamo costretto dapprima a sottoporsi ad un energico massaggio alle gambe con un unguento magico, in possesso di Vasco, e poi a persuaderlo a non rinunciare. Purtroppo i problemi non furono solo quelli. Dopo circa un ora di arrampicata Vasco confessa di avere problemi alla vista dovuti alla temporanea combinazione tra occhiali da sole di Beppe e le sue lenti a contatto.Decide pertanto di tornare indietro per non essere di peso agli altri tre compagni, in quel punto dell’ascensione in cui il rifugio è ancora relativamente vicino. Antonio si offre di accompagnarlo; mentre Beppe procede lentamente in salita io decido di aspettare il ritorno di Antonio. Trascorre un’altra ora e mezza e di nuovo siamo tutti e tre riuniti. Il compito di apripista o meglio segnavia spetta a me; sono molto attento a non smarrire la via ideale di salita, dato che non è affatto ben segnata. Mi sento bene; il tempo è splendido e non fa freddo, nonostante l’altitudine. A pochi metri dal bivacco, e dopo alcune ore di salita, ci attende un passaggio particolarmente delicato; è molto esposto ma lo supero abbastanza agevolmente in pochi minuti; assicuro quindi la corda ad un chiodo fisso e la lancio ai due compagni poco più sotto per agevolarli nella salita. Eccoci quindi nuovamente alla Solvay, traguardo di due precedenti spedizioni che ci ha visto bivaccare notti tremende e rinunciare, sconfitti, alla cima; sempre però con la consapevolezza dei propri limiti e la coscienza di non correre rischi inutili. Troviamo il bivacco vuoto ma molto sporco; evidentemente la montagna è frequentata da gente che in definitiva non la rispetta. Non è così per noi, sinceramente attenti a non lasciare rifiuti in giro. Pertanto, dopo una sommaria pulizia, e senza dover muoversi troppo (lo spazio intorno al bivacco è molto esiguo) ci prepariamo ad un seconda notte di disagi. La giornata volge al tramonto, la vista spazia all’infinito, solo una porzione di orizzonte rimane coperta dai restanti quattrocento metri di parete che ci dividono dalla cima e sotto di noi il vuoto. Ho provato la sensazione, senza esserci mai stato, di trovarmi in mongolfiera, libero nello spazio senza niente altro intorno a me se non aria, luce e silenzio. All’imbrunire due cecoslovacchi, marito e moglie, ci raggiungono, abbastanza provati, al bivacco; non ci sarà per loro una stanza con servizi ad attenderli! Si mangia quel poco che ciascuno di noi ha portato nel proprio zaino assistendo ad un incredibile spettacolo della natura; l’ombra del Cervino proiettata, dal sole alle sue spalle, sul gruppo del Monte Rosa sembrava indicare, con il suo cono, la capanna Margherita, inconfondibile sagoma sulla punta Gnifetti. La notte non passa mai. Sotto le coperte non si stava poi tanto male. Ad un certo punto avverto una strana sensazione, come di caldo esteriore e tremore interno. Non saprei dire cosa fosse; l’immaginazione è corsa alle conclusioni più strampalate, considerato l’ambiente; ma poi ho voluto attribuire il tutto alla quota, che spesso gioca brutti scherzi come, per esempio, forti mal di testa oppure nausea. Fortunatamente l’effetto è durato soltanto pochi minuti e, nel frattempo, devo essermi appisolato perché ho sentito Beppe uscire dal bivacco senza più avvertirne il ritorno. 13 agosto Dopo la fase di quasi stordimento per la conquista della cima e la soddisfazione che abbiamo provato dentro, ci siamo stretti la mano ed il nostro pensiero è stato per Vasco, che non era tra noi e non poteva condividere la felicità che provavamo in quel momento. Antonio, nel frattempo, si era portato nei pressi della croce, sulla cima italiana, distante una trentina di metri ed un po’ più bassa, lasciandoci, sulla cima svizzera, euforici a godere del panorama incredibilmente emozionante. Avevamo impiegato quattro ore per superare poco più di quattrocento metri di parete e dopo un’oretta di sosta in cima incominciamo la discesa che andava affrontata con altrettanta attenzione della salita. In alcuni punti sfruttiamo la tecnica della corda doppia ma, incontrando un notevole traffico di alpinisti in salita, praticamente arriviamo al bivacco Solvay impiegando lo stesso tempo della salita. Al bivacco ritorniamo in possesso delle poche cose, inutili, lasciate per la salita alla cima, e continuiamo la discesa verso il rifugio Hornli. Ancora un volta faccio da aprivia osservando con attenzione le cordate che ci stanno davanti e ricorrendo ancora alla tecnica della corda doppia per superare, in discesa, alcuni passaggi delicati. Le ore passano ed il rifugio comincia ad essere visibile sotto di noi. Improvvisamente un rumore inconfondibile ci colpisce: si tratta di una cascata di sassi provocata da una cordata di ragazzi, che poi scopriamo essere americani, che stanno scendendo, sopra di noi. Istintivamente ci ripariamo, aderendo alla parete ed inviando nella loro direzione urla di avvertimento (ed anche qualche parolaccia, Antonio era infuriato). Decidiamo quindi di lasciarli passare. Il rifugio ormai non dista molto; è sempre più definito alla nostra vista ed io mi sento molto più tranquillo. Più tardi, da lontano, intravedo Vasco che, con il naso per aria, sta osservando i nostri movimenti. Lo chiamo a squarciagola e lui mi saluta con la mano. Ci divide dal rifugio soltanto un ultimo salto di una trentina di metri che supero per primo e con molta cautela; sarebbe imperdonabile concedersi un momento di rilassatezza a questo punto, anche perché, proprio in questo tratto, in un nostro tentativo precedente, abbiamo assistito alla caduta di un alpinista che ha trovato la morte. Giù nel piano dove sorge il rifugio, abbracciando Vasco, una sana commozione si impossessa di entrambi e ci fa lacrimare gl’occhi; le parole che ci sussurriamo all’orecchio sono di conforto e congratulazione. La stessa emozione si ripete, qualche attimo dopo, con Antonio e Beppe, che arriva per ultimo. E’ ormai pomeriggio avanzato; ci aspetta un’altra notte al rifugio Hornli senza tuttavia rosee prospettive sulla qualità del trattamento. 14 agosto A Ferrara, in breve tempo, la notizia fa il giro degli addetti ai lavori. Arrivano, per noi, congratulazioni di amici e conoscenti. Qualcuno, con cui frequento la palestra di roccia, mi ha pure rimproverato, in senso buono chiaramente, di non averlo interpellato per una possibile sua partecipazione all’impresa. Sono certo che non avrebbe avuto problemi di sorta, considerando la sua buona preparazione tecnica, ma come avrei potuto spiegarli quel sentimento di sfida, maturato alcuni anni addietro ed ora appagato, che teneva uniti quattro amici in un’alleanza immaginaria contro il Cervino, questa montagna tanto apprezzata e temuta dagli alpinisti di tutto il mondo. Dal profondo della sua passione per la montagna, e soltanto grazie ad essa, potrà comprendere quale possa essere stato lo stato d’animo che ci ha uniti a lungo nei nostri tentativi di scalata al Cervino.
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